È quando ci s'arrampica su se stessi senza lasciar traccia, avvitandosi in cerchi concentrici per nascondersi ai raggi indiscreti, che ci s'imbatte nel suono delle cicale stanche di molestarsi per non soccombere al ritmo degli eventi.
Conviene, allora, schivare gli stracci che sbatacchiano al vento, impigliandosi, uno con l'altro, con l'ardore di chi si sente imprigionato dietro lo steccato di sogni rimuginati, ma non spenti.
La lingua si stiracchia impertinente per uscire dal palato inospitale, va a bussare contro pneumatici consunti, ed assume il profilo impercettibilmente felino d'un veleno cieco e taciturno, mentre l'eco d'una foglia pallida ed avvizzita morde alle spalle, sbriciola risate in mille frammenti, s'immischia come fede incrollabile che inviti a volare oltre la vita.
È da questa presunzione deriva che, le mele, per non lasciarsi divorare dalla vergogna, si facciano
medicare dalle stelle della notte.
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